Recensione: Ivan Illich, Genere: per una critica storica dell’uguaglianza, Neri Pozza

Ivan Illich, Genere: per una critica storica dell’uguaglianza
Neri Pozza, pp. 223, euro 18
Traduzione Ettore Capriolo
Nel rapporto ad un saggio corposo e significativo come questo, è sempre difficile scegliere una via d’accesso per renderne il senso. Ho scelto di accennare alle conclusioni perché partendo da esse è possibile, se accettate, accettare anche le affermazioni controcorrente che Illich utilizza sin dall’inizio. Ecco quindi cosa dice quasi alla fine, quando si trova a dover tirare le somme di quanto detto in precedenza: “Possono realmente apprezzare il genio di Marx e Freud soltanto coloro che vedono con quanta precocità essi definirono le regole del dramma moderno. Furono loro a forgiare i concetti definitivi che sarebbero serviti a descrivere e poi a dirigere il nuovo tipo d’attore, l’uomo industrializzato. (…) Affermavano di aver scoperto un’energia neutra che, in forma di capitale, circola nei condotti sociali e in forma di libidine nei canali psicologici. In tal modo nei primi tre quarti del nostro secolo abbiamo dovuto convivere con l’energia, il lavoro e la sessualità come la “realtà della vita.” Ma ora che si è diffusa la parola d’ordine della ‘crisi’, è forse possibile revocare pubblicamente in dubbio la loro realtà” (pp. 218 – 219). E’ chiaro, mi pare, che Illich vada sostenendo una posizione in contrasto con le teorie marxista e freudiana. Iniziamo quindi ad affrontare passo passo il libro, per vedere in quali punti si contrapponga a questi due grandi teorici della modernità.
In primis, diciamo che Illich sostiene un’evoluzione del genere umano, dal punto di vista antropologico, attraverso tra fasi. Ad una prima fase che termina grosso modo appena iniziato il secondo millennio, segue una fase più breve che termina all’inizio dell’industrializzazione. La terza fase è quella in cui stiamo vivendo. La prima fase si caratterizza per un regime di sussistenza, ovvero in ogni luogo si produce da vivere quanto basta ai locali. Nella fase successiva la società incentiva un’organizzazione tale che ogni nucleo sociale produce un’eccedenza, che viene messa sul mercato. Per fare questo, i ruoli di genere stabiliti dalla tradizione vengono persi. Nella terza fase, la nostra, il sesso ha sostituito il genere. L’individuo non è più ciò che la sua appartenenza di genere gli permetteva, ma diviene ciò che la sua scelta sessuale gli permette di diventare. Questa è una descrizione estremamente sommaria, che cercherò di sostanziare con un’analisi più puntuale del testo. E’ infatti ovvio che un discorso di questo genere, semplicemente stadiale, pecca di approssimazione ed ingenuità, due caratteristiche che non mi paiono certo attribuibili al pensiero di illich. Ma andiamo con ordine.
“Il passaggio dal predominio del genere a quello del sesso costituisce un cambiamento nella condizione umana che non ha precedenti. Ma il fatto che il genere possa essere irrecuperabile non è una buona ragione per nascondere la sua scomparsa proiettando all’indietro il regime del sesso, o per mentire sulle degradazioni assolutamente nuove che esso ha prodotto nel presente” (p. 32). Come ogni forma di pensiero dominante fa, anche la nostra si crea un passato. In una società come quella arcaica ove a predominare era il genere le attività individuali erano predefinite dal genere di appartenenza; nella nostra invece, ove domina il sesso, le attività da compiere sono scelte ‘liberamente’. Queste attività sono funzionali all’indipendenza economica dell’individuo, la grande conquista della modernità. Finché la vita era confinata entro i confini della comunità di appartenenza, il genere e le funzioni ad esso attribuite garantivano al singolo la sussistenza personale e familiare; al contempo ne limitavano le libertà. Si era appunto in un’economia di sussistenza. Ora siamo invece in un’economia della scarsità, dominata dalla lotta tra i singoli per il possesso di risorse artificialmente scarse; il possesso di tali risorse rende liberi. Solo all’interno di una realtà economica di questo tipo diviene possibile la discriminazione sessuale: “Una discriminazione economica delle donne sarebbe stata impossibile senza l’abolizione del genere e la costruzione sociale del sesso. E’ questo che intendo dimostrare col mio ragionamento. E se questo è vero – se cioè lo sviluppo economico porta intrinsecamente e irrimediabilmente alla distruzione del genere, se è insomma sessista – si può arrivare a una riduzione del sessismo solo a ‘costo’! di una contrazione dell’economia” (pp. 43 – 44).
Nella prima fase dell’umanità, i ruoli, le attività da svolgere, erano attribuiti per genere. Nella seconda, come già detto, la pressione economica inizia a muovere i confini. Aumentano le cose da fare. La famiglia, che si crea nel senso che le diamo oggi solo all’inizio del secondo millennio, assorbe al proprio interno molte delle attività prima svolte dalla comunità. Queste attività sono corvee invisibili, cioè forme di lavoro implicito non riconosciute da un salario: “Quello che è oggi il lavoro domestico, le donne una volta non lo facevano. Ma per la donna moderna è difficile credere che le sue antenate non fossero costrette a lavorare in un’economia sotterranea. (…) Man mano che aumenta l’occupazione nei diversi tipi di impiego salariato, s’espandono necessariamente ancor più in fretta le corvee invisibili” (pp. 77 – 78). La dipendenza dell’economia moderna da queste corvee invisibili è enorme: “Definisco lavoro ombra qualsiasi attività con la quale il consumatore trasforma una merce acquistata in un bene utilizzabile” (p. 79). La produzione capitalistica si basa sull’assunzione all’interno della famiglia di queste attività di trasformazione. Illich contrappone a questo tipo di società un’economia vernacolare, che definisce di seguito: “Vernacolare si riferisce dunque alle cose fatte in casa, tessute in casa, coltivate in casa, e non destinate al mercato ma al solo uso domestico” (nota p. 100).
Una società vernacolare è chiaramente una società limitata. Non credo che Illich ambisse ad un ritorno al passato. Sostiene però la necessità di aver chiaro in mente il fatto che il passaggio all’economia capitalistica implica, insieme ad una grande possibilità di libertà, anche una grande, forse più grande ancora, possibilità di subordinazione a necessità esterne, che potremmo definire disumane.
“Vernacolare, genere e sussistenza sono caratteristici di una finitezza morfologica della vita comunitaria, basata sul presupposto, implicito ma spesso rappresentato nel mito e attualizzato nei riti, che una comunità, come un corpo, non può svilupparsi oltre le proprie dimensioni. La madrelingua insegnata, il sesso e un modo di vivere fondato sul consumo di merci si basano sul presupposto di un universo aperto in cui qualsiasi correlazione tra bisogni e risorse ha come fondamento la scarsità. Il genere comporta una complementarietà all’interno del mondo che è fondamentale e stringe il mondo intorno a noi, per quanto fragile e ambiguo possa essere questo abbraccio. Il sesso comporta invece un’apertura illimitata, un universo in cui c’è sempre qualcosa in più” (pp. 114 – 115).
“Può essere corretto considerare il genere vernacolare come il fondamento della complementarietà ambigua e il sesso dei neutri economici come un esperimento per negare o trascendere questo fondamento” ( p. 107). La società vernacolare trova fondamento nel genere. Per poter gestire lo sviluppo economico, con la necessaria fungibilità dei ruoli, è necessario trascendere il genere e generare il sesso. Una società che si fonda sul sesso è una società priva di fondamenti, che però si sviluppa, diviene. Il punto sta nel non vedere più come mutualmente escludentisi una società dotata di genere e priva di sviluppo ed una società che si sviluppa attraverso l’identificazione sessuale, ovvero la creazione di individui che non riconoscono regole al contorno immediato. Il livello di sviluppo raggiunto dai contemporanei permetterebbe a tutti di vivere il proprio genere di appartenenza, non necessariamente vincolato al sesso biologico; ma il fatto che l’individuo sia così condizionato dalla dimensione economica ha delle inevitabili ricadute sull’ambiguità di genere. Grazie all’uso della ragione, patrimonio degli ultimi secoli di sviluppo, sarebbe possibile mantenere le garanzie dell’appartenenza al genere insieme alla libertà della scelta individuale. Ma così non è, perché il capitalismo ha preteso vi fosse un’unità produttiva affidabile che garantisse venissero proseguite le mansioni precedentemente svolte in base all’appartenenza di genere; nasce così la famiglia: “Dal punto di vista antropologico, l’occidentalizzazione può essere intesa come il confluire di molte e differenti strutture di parentela nel modello della famiglia coniugale. (…). La diffusione di una produzione basata sul genere ma coniugale fu solo la prima ! fase di un processo che distinse l’europea da ogni altra cultura. (…). Così per cinquecento anni, dal XIII secolo all’inizio del XIX, si diffuse un tipo di matrimonio in cui uomini e donne aggiogati alla produzione coniugale conservavano i rispettivi compiti di genere” (pp. 135 – 137).

La famiglia cristiana diviene così, passo dopo passo, l’unità riproduttiva e produttiva della società capitalistica che cerca di sganciarsi dall’origine vernacolare. Al suo interno la donna viene socialmente relegata a svolgere i compiti che le sono propri per genere. Il maschio, che realizza il suo genere all’esterno della famiglia, utilizza la mercede economica ottenuta in cambio della sua forza lavoro per compiere la sua parte di lavoro di genere. All’interno della famiglia la donna viene così a coprire un ruolo subalterno, senza un valore riconosciuto socialmente: la donna si costituisce come ‘secondo sesso’ (cfr. Simone De Beauvoire, Il secondo sesso, Einaudi): “Il risultato è che l’architettura economica neutra che dà forma a un ben definito spazio-tempo internazionale estrania le donne a se stesse, trasformando il genere femminile nel secondo sesso” (p. 160).
Questa forma sociale – con la donna declassata a secondo sesso – viene profilandosi nel XIX secolo. Venendo meno i rituali e le pratiche simboliche che tenevano unita la società, si vanno formando una serie di professioni assistenziali che servono a compensare le insicurezze che iniziano a costellar le vite di questi individui nuovi; segno precipuo di questa dinamica è, secondo Illich, la medicalizzazione della gravidanza: “La gravidanza soggetta a un’assistenza professionale intensiva diventa, a mio parere, il rituale che solennizza la vittoria definitiva dello spazio tempo amministrativo su quello vernacolare” (p. 162). La medicalizzazione del parto però, è proprio l’esempio del limite intrinseco all’analisi di Illich. Visti i sicuri miglioramenti fisici che questa pratica ha comportato essa non rappresenta sicuramente un passo indietro. La perdita vernacolare che il parto assistito rappresenta è una vittoria dell’individuo, meglio, della ragione sulle pratiche magiche che la precedevano. Il punto nodale è sempre lì: utilizzare i mezzi che la ragione ci ha permesso di sviluppare senza svilire le qualità che la vita comunitaria possedeva.
Questa mia nota precede quella che lo stesso Illich appone, ed ha la sola funzione di segnalarla: “Ma a questo punto della mia argomentazione, occorre fare una distinzione più importante di quella tra sesso animale e genere sociale: la differenza tra gli sconfinamenti di genere e la scomparsa del confine stesso. La sparizione del genere, che è il tratto antropologico caratteristico delle culture industriali, deve essere attentamente distinta dalla trasgressione o infrazione del genere stesso” (p. 181). In altre parole, una cultura del genere non proibisce che un intervento al di fuori delle regole del genere venga compiuto, mentre una cultura individualista consente solo interventi in base a norme codificate. Il rispetto delle sole norme finisce per cancellare il singolo, le sue specificità, per riconoscere valore solo al generico, alla sua nullità.
Per garantire alla società un funzionamento costante nel tempo è stato necessario inculcare nella gente comune la necessità di rispettare le regole che riconoscessero alle persone il diritto/dovere di comportarsi non secondo il genere ma secondo il sesso; Illich chiama questo processo coscientizzazione (cfr. p. 199, nota). Attraverso la formazione di una coscienza – che è ciò che permette di vivere senza appartenere a un genere – entriamo nella terza fase dello sviluppo antropologico proposto da Illich. Quella attuale.
Come ogni lettura teorica della realtà, quella qui proposta ha luci ed ombre. La sua luminosità risiede nel permettere di scorgere, a chi vi si affidi, una soluzione all’insicurezza che coglie sovente l’uomo contemporaneo circa il suo posto ed il suo ruolo nella società; c’è una variabilità innata tra gli individui, e solo riconoscendola e accettandola è possibile vivere bene. Le ombre stanno invece nella richiesta forte avanzata da questa teoria per un’accettazione dei limiti intrinseci all’uomo e alla realtà, accettazione il cui rifiuto è stato forse proprio ciò che ha permesso all’illuminismo di sconfiggere i suoi nemici, almeno in un primo tempo. La loro rivalsa è stata purtroppo conseguenza immanente alla dialettica, dell’illuminismo. Viste le origini religiose del percorso di Illich risalta subito nel suo approccio la necessità di una comunità da opporre alla solitudine dell’economia di mercato: “Nel regno del genere uomini e donne sono collettivamente interdipendenti; e questa dipendenza reciproca pone dei limiti alla lotta, allo sfruttamento e alla frustrazione. La cultura vernacolare è una tregua, a volte crudele, tra i generi. Quando gli uomini mutilano i corpi delle donne, il gineceo conosce spesso modi atroci per vendicarsi sui sentimenti maschili. In contrasto con questa tregua, il regime di scarsità impone a ogni donna una guerra continua e tipi di frustrazione sempre nuovi. Se nel regno del genere le donne possono essere subordinate, in qualsiasi regime economico sono soltanto il secondo sesso” (p. 221). Questa conclusione permette di legarci all’inizio della recensione e vedere come sia Marx sia Freud hanno fornito gli strumenti teorici per formalizzare l’individuo attuale. Illich sa bene che il passato è irrecuperabile; ma sa anche che solo l’integrazione delle informazioni del passato alla condizione attuale può permettere all’umanità quel salto qualitativo che è necessario per garantire al singolo individuo pulsionale ed economico di non farsi sopraffare da pulsioni ed economia.
Per tutti coloro che si sono affermati nella vita questi discorsi risulteranno astrusi, fors’anche ostili. Le persone che si sono liberate dai vincoli del gruppo ed hanno acquisito la sicurezza del denaro potrebbero non riconoscere alcuna validità all’identità di genere, identificandola con la negazione dell’identità sessuale, anche oggi, per taluni, con tanta fatica affermata. Non era certo intenzione di Illich provocare queste reazioni, ma favorire una lettura più aperta e possibilista, in grado di accettare le differenze individuali, visto che solo l’individuo che realizza le proprie potenzialità può dare un significato alla propria esistenza: “Io non ho strategie da proporre. Mi rifiuto di avanzare ipotesi sull’efficacia di qualsiasi rimedio. Non permetterò mai all’ombra del futuro di posarsi su concetti mediante i quali cerco di capire ciò che è e ciò che è stato. Come l’asceta e il poeta meditano sulla morte, e godono in tal modo con gratitudine della squisita vitalità del presente, così noi dobbiamo affrontare la dolorosa perdita del genere. Ho il forte sospetto che si possa recuperare una contemporanea arte di vivere, a patto che la nostra austera e lucida accettazione del doppio ghetto dei neutri economici ci induca a rinunciare alle comodità del sesso economico. La speranza in una vita di tal fatta si fonda sul rifiuto del sentimentalismo e sull’apertura al sorprendente” (p. 223).

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