Recensione: Jennifer Haigh, Mercy street

Jennifer Haigh
MERCY STREET

Edizioni Bollati Boringhieri | pp. 364 | € 20
Traduzione di Mariagiulia Castagnone

Jennifer Haigh, che tanto avevamo apprezzato anni fa con L’america sottosopra, un romanzo in cui si affrontava la questione dell’impoverimento sociale della zone rurali degli USA, affronta in questo nuovo lavoro il nodo scottante degli aborti. La protagonista del romanzo è Claudia, che lavora in una struttura privata che garantisce contraccezione e pratiche abortive alle sue pazienti, le donne di Boston. Vista la natura privata del servizio, come gran parte della sanità in America, ogni richiesta, spesso fatta da persone non in possesso dei mezzi economici e culturali per affrontare liberamente la situazione, si trasforma per Claudia in un percorso a ostacoli nel tentativo di trovare una soluzione ottimale. In parallelo alla sua vita, che si svolge interamente attorno al lavoro ma che subirà un’imprevista svolta che la obbligherà a confrontarsi con il proprio passato, la Haigh è molto abile nel tratteggiare le idee che guidano i picchettanti all’esterno della clinica. I movimenti antiabortisti sono attivi in tutto il mondo per imporre una malintesa sacralità della vita alla libertà di scelta individuale e una trentina di persone sono costantemente di picchetto all’esterno della clinica in Mercy street. Tra loro spicca Anthony la cui vita ci viene presentata nei dettagli, insieme a quella di Tommy, lo spacciatore che fornisce i vari personaggi del romanzo. Accumunati dall’uso della droga come fonte di sollievo temporaneo, i protagonisti si muovono un po’ meccanicamente verso un finale che grazia quasi tutti e mostra, coso mai ce ne fosse bisogno, che ognuno è responsabile delle proprie azioni.
E la libertà di scelta è una di queste.

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